martedì 12 marzo 2013

LE PROIEZIONI DEGLI ADULTI E IL NOSTRO PROGETTO SENSO


 “ Chi sono io? Da dove vengo? Dove sto andando? Qual è il mio senso?” Attraverso la data di nascita della persona si dipana il nostro “codice a barre”, ovvero un’architettura numerologica che descrive la struttura dell’individuo, una sequenza di numeri che indicano come e dove siamo edificati e ci permettono di vedere su quale terreno genealogico poggiano le fondamenta del nostro edificio interiore. Scrutiamo così stanze che indicano atteggiamenti, memorie, dinamiche, conflitti della persona e allo stesso tempo i talenti per poterle osservare, accettare e portarle in struttura, ovvero accettare se stessi e non mettere più attrito tra di Noi e la Matrice. Una considerazione fondamentale è scoprire che “Noi non siamo Noi”, ovvero quello che noi crediamo di essere, le nostre credenze, il nostro status sociale, il nostro lavoro, la nostra personalità è forgiata da delle dinamiche inconsce che rispondono al nostro Albero Genealogico e, ad un ottava superiore, da memorie karmiche che si manifestano quotidianamente nelle nostre “scelte”, o meglio nelle nostre “non scelte” in quanto spesso si è trascinati dalla vita a percorrere strade che sono frutto di spinte date dal nostro clan di appartenenza. Nel giorno di nascita un bambino viene al mondo caricato di un senso, che non è suo, ma quello dei suoi genitori che a loro volta hanno ereditato dai propri genitori. Questa data non è causale, ma è determinata da una costellazione di avvenimenti - shock, vissuti da un genitore, da uno dei nonni, a volte anche da generazioni precedenti, e questo può essere trasmesso e passato di generazione in generazione causando sintomi comportamentali o fisici in un discendente. Quindi capire la propria struttura, le memorie che ci portiamo appresso è fondamentale per conoscere il Progetto genitoriale e iniziare un percorso di osservazione atto a trasgredire il Progetto genealogico pur conservandone il Senso. Ecco che allora si parla di Progetto Senso della nostra vita, ovvero questi è la buona soluzione alla problematica dei nostri genitori durante i nove mesi prima del concepimento, i nove mesi di gestazione e i primi nove mesi di vita, per un totale di 27 mesi. Trasgredire il Progetto e conservarne il Senso vuol dire Conoscere Se Stessi, assumersi la responsabilità della propria Funzione, senza più essere in balia degli eventi e delle memorie. Conoscere il proprio Progetto Senso consente di essere presenti a se stessi, di assumersi le responsabilità rispetto al proprio Talento e di metterlo in funzione andando altre la propria sfera personale, per certi versi è come se ci distaccassimo dalla nostra personalità per agire solo la nostra Funzione, qualcosa che è prettamente nostra e diversa da individuo ad individuo. Aderire al proprio Progetto Senso consente di non fare più attrito con quanto si manifesta quotidianamente ai nostri occhi, perché tutto quello che accade all’esterno non è altro che lo specchio di ciò che avviene interiormente, ogni evento è il manifestato di una parte interiore che va osservata e alla quale occorre dare una risposta, ogni risposta aiuterà a sciogliere ed ad alleggerire il conflitto, prima in ambito biologico poi con la consapevolezza ad un livello spirituale. La sequenza numerologica si impregna così dell’energia archetipica degli Arcani Maggiori e delle vibrazioni delle Lettere Ebraiche andando così a svelare il dialogo silenzioso delle Memorie che rimuginano nel nostro inconscio. Attraverso la Mappa scopriamo essere i frutti del nostro albero genealogico, così generazioni influenzano generazioni, sequenze emozionali non concluse che si ripetono e persone in balia della Vita come barche nella tempesta.. eppure la soluzione è lì di fronte a loro, o meglio Dietro di loro, noi siamo i frutti di un albero antico, abbiamo lo stesso sangue, le stesse memorie, le stesse credenze e oggi più che mai conoscere il proprio albero genealogico e le sue dinamiche è fondamentale per conoscere se stessi. Henri Laborit, J. C. Badard, A. Jodorowsky, fino a C. Jung e all’Alchimia, numerologia, kabbalah tutto ci parla di un Albero Sacro che va conosciuto e integrato, per poter fare Luce nel Buio e ritornare a vedere LE STELLE.. consapevoli del proprio Progetto e del Senso su questo Piano.. sta tornando il tempo della riconciliazione tra Scintilla e Corpo, tra malattia ed emozione, dove vengono abbattute le barriere delle credenze e finalmente oltre che con gli occhi si inizierà a vedere ed ad ascoltare le persone con il Cuore!     



Simone Loi ©
Work in progress: Le proiezioni degli adulti sul Futuro.
Ovvero come rimane imprigionati in un ruolo che non ti appartiene.
2013, grafite e pastello su carta, ombra che incombe su fotografia. 
(Modello: ognuno di Noi)








mercoledì 5 settembre 2012

SOTTO IL SEGNO DI LILITH _ 2013


S I M O N E   L O I

Sotto il segno di LILITH

Il progetto Sotto il segno di Lilih nasce dal desiderio di dare un volto alla prima donna dissidente del Mito. Lilith fu la prima sposa di Adamo, combatté per i suoi diritti e per questo suo andare contro l’ordine costituito dal Padre fu punita e maledetta. Oggi come allora la dinamica rimane invariata, la donna che si oppone al volere dell’uomo viene maltrattata, punita, uccisa. Questo accanimento contro la donna accade perché il potere di Lilith è enorme, è un potere che non si può piegare, è un potere che mette a nudo le debolezze e il lato oscuro dell’uomo, incapace di guardarsi dentro e accettare le sue paure e fragilità. Il dilagare del femminicidio è la testimonianza della miseria interiore dell’uomo, che oppone alla sacralità della donna la forza bruta della violenza, mancando completamente il bersaglio dell’accettazione di se stesso.
Questo progetto chiama ad adunata tutte le Lilith che danzano in questa terra, tutte le donne che vogliono gridare basta alle violenze e abusi. Lilith vive dentro ognuno di Noi, è la forza più potente che abbiamo e per questo vi invito a metterla in mostra.
Per realizzare questo progetto vi invito ad incarnare Lilith e a ritrarvi attraverso un autoscatto. Incarnare Lilith vuol dire guardare nell’Abisso, e questa è una sfida ardua che porta alla conoscenza di se stessi. Queste foto diventeranno il corpo sacro di Lilith e verranno esposte all’interno di un non-luogo, creando un Tempio dedicato alla dea. Vorrei che i mille volti di Lilith echeggiassero in questo spazio.
In questo progetto non esiste bello o brutto, giusto o sbagliato, ma la consacrazione di una Donna-Dea che combatte per i suoi diritti. Siate dee

Come Partecipare:
Per poter partecipare al progetto Sotto il segno di Lilith basta inviare la richiesta alla casella di posta elettronica loisimone@hotmail.com e riceverai la liberatoria con i termini del progetto. Lo scatto deve pervenire in buona-alta risoluzione alla casella di posta elettronica accompagnata dalla liberatoria per l’uso della fotografia, questa deve essere compilata e firmata in ogni sua parte. Una volta pervenute queste faranno parte del progetto e pertanto l’autore-autrice della foto cede i diritti di utilizzo in contesti come mostre, concorsi ed eventi pubblici etc. L’autoscatto è il mezzo fondamentale per ritrarsi senza l’intervento di un punto di vista esterno al soggetto, desidero che la persona sia sola con la macchina fotografica e si lasci andare davanti all’obiettivo.
Grazie
Simone Loi

Ecco alcune immagini che sono pervenute, grazie a tutte le LILITH








AUTORITRATTI_ BAMBINO INTERIORE 2013


Il progetto Autoritratti_Bambino Interiore è una serie di disegni su cartoncino realizzati a pastello, gessetto e grafite. L’intento è di indagare la Nostra società, la Nostra quotidianità, i Nostri paradossi, mettendone in scena alcuni aspetti intimi. Mettere a fuoco la Fragilità della vita di tutti i giorni, ritraendo non il sé dell’artista, il suo volto come terreno di indagine introspettiva,  ma la vita che ci circonda, che si rivela e si mostra nelle sue storture, autoritratto di quello che c’è per strada come riflessione su ciò che stiamo vivendo. Ogni autoritratto è una storia, la storia di una metamorfosi, come una piccola rivelazione del quotidiano, si incontrano così donne fragili che diventano bambole rotte e a pezzi, soldatini di plastica che sparano con armi reali, bambini che stringono una coperta come se stringessero tutto il bisogno di sentirsi protetti e amati, pinocchi dal volto umano stanchi delle bugie che affollano le stanze del potere.
In questo regno di finzione il microcosmo del giocattolo svela la fragilità dell’adulto e del suo mondo plastificato.
 L’idea dell’autoritratto comporta il riflettersi criticamente, la messa a nudo che diventa al contempo rivelazione del lato oscuro. 

SELF-PORTRAITS
Self-portraits _ Inner Child is a project  consisting in a series of drawings on paper, realized with pastels, chalks and graphite. Their purpose is to question Our society, Our everyday life and Our paradoxes by enlightening some of their hidden features. They focus  on our life’s frailty and they do not depict the artist’s self, they do not represent the artist’s face as an inner ground of investigation, but they choose to portray life itself. Life that surrounds us in all its deformations, self-portrait of what’s on our paths as a reflection on what we are living. Every self-portrait is a story, the story of a metamorphosis and a little revelation of everyday life. Each of them is a place where you meet frail women that become broken dolls, plastic soldiers shooting with fake weapons, children holding a blanket to show their need of protection, pinocchios with human faces tired of all the lies that feed the power. In this universe, toys reveal the frailty of adults and their plastic world, while our self-portraits make us reconsider ourselves, critically, by revealing our dark side.





Pinocchio si libera del suo fardello, il suo naso si è plasmato di finzioni e bugie. Un gesto che dice basta alla classe politica e vorrebbe che i Burattini del Potere divenissero Umani.


Il piccolo Linus che si nasconde dentro di Noi, fragile portatore di saggezze ed infinito bisogno di carezze e certezze. L’innocuo e disperato bisogno di sentirsi dire che Tutto Va Bene.




Bambola Fragile rappresenta il tentativo di ricostruire un rapporto che è andato a pezzi, in una poetica del dolore interiore che si nutre di rotture e malsani tentativi di ricomposizione.



Rappresenta l’attimo che precede l’indossare l’elmetto e scendere nel mondo del lavoro, quell’istante in cui raccogli le forze e ti concentri per non commettere errori, per essere efficiente e professionale.. ma alle volte, quell’Istante viene  a mancare e ti ritrovi sprovvisto della tua “armatura”, delle tue sicurezze, e ti senti fragile e insicuro come un bambino che non sa a cosa va incontro.. La nostra generazione vive sul baratro di un perenne inizio, eterni migranti che non possono mettere radici, eterni bambini.



Il Guerriero Sintetico Difensore della Libertà, ovvero la colassale menzogna che attraverso la guerra si possa esportare la Libertà del Popolo. Il Guerriero di plastica è figlio del Dio Petrolio, non ha coscienza,spara dove il Denaro dice di colpire e conquistare. Marionetta inutile.


L’isolamento come via di fuga dalla realtà che ci circonda.

 

Autoritratti.
Un’interpretazione:
di Roberta Sale

Questi non sono ritratti individuali, immagini al culmine della luce come quando una ragazza si trucca, si sente bella e si lascia immortalare per sempre nella propria giovinezza. Non sono le linee lievi con cui le dita di Simone ridisegnano il paese unito nel mito, nella poesia antica, nell’oro risoluto degli occhi.
Qui non siamo nei colori pastello di Pleasantville, dove il dolore era appena un solco tracciato sul viso, un’ombra leggera e familiare, che non recava turbamento.
Questi sono ritratti universali, che del mondo illusorio del gioco rintracciano il potenziale simbolico, l’inizio abissale della paura.  Nelle trame dell’infanzia, nella simulazione degli oscuri rituali adulti, nella ricezione di un mondo che accumula schermi e genera attaccamento insicuro, si riflette il germe distorto di una società inquieta, come sulla superficie liquida di uno specchio, ingresso al fondo sinistro.
Ci sono bambole, bambini, soldatini, fiabe, apparecchi multimediali.
Capelli rossi trascinati da un vento freddo che soffia da est, minaccia di tempesta, cuore scheggiato, impotenza del gesto, gambe forti divelte e scomposte, divaricate da una violenza maschile che prosegue a dispetto delle conquiste e spegne gli occhi delle donne guerriere, le rende giocattolo rotto, rubato dell’anima.
Sguardo triste di cucciolo bagnato che del suo mantello d’eroe fa improvviso rifugio, difesa di sogno in un mondo a misura di adulto, retaggio di fragilità che resiste, si annida nel cuore rimasto bambino.
Guerra di plastica, senza testa né onore, sempre più distante dallo scontro dei corpi e lo scambio degli occhi, dal codice antico che imponeva la tregua notturna e balenava la parola fratelli nella mente del compagno ferito, in ascolto del nemico apparente. Ora la guerra è strategia da lontano, automa sintetico senza pensiero. Ma la potenza del colpo è reale, così come la morte disseminata in silenzio in teatri poco illuminati.
Pinocchio alla fine della sua storia, quando si stanca del gioco, del diritto alla bugia leggera, innocua eppure tagliente come quelle di chi si arroga il potere infantile di rendere il mondo personale scacchiera. Burattino dal volto già umano, depone la fiaba di legno e si affaccia alla vita per come dovrebbe essere, alla via diritta dell’etica che ancora serpeggia sepolta.
Solitudine spessa, che cammina nell’isolamento di musica amica, rabbiosa, come schermo che protegge dal vento, dall’incomprensione adulta, dalla fatica dolorosa dell’incontro, dalle delusioni di un’identità arruffata e incerta, musica che esalta la ferita e così procura sollievo, musica che si accende segreta nell’ora fredda di lezione a suggerire il sogno e portare lontano. E si vorrebbe che uno sguardo sincero fin nel fondo che trema s’avvicinasse piano, scostasse le cuffie, trovasse parole di relazione autentica.
La nostalgia di un incanto perduto e l’amarezza di un tempo stravolto.
La galleria sembra proseguire le stanze ufficiali del palazzo, come ventre che si apre di lato e conduce a smarrirsi. Dai ritratti pastello di abitanti sereni, richiesti al pittore di corte e per questo gradevoli al cuore, continuando a camminare, nella luce che si abbassa e la fine che si perde nel buio, s’incontrano ritratti stonati, visioni oniriche di pittore inquieto ubriaco di quotidiano.  Ora le belle fanciulle hanno gli occhi vitrei dell’oltre amore e il gioco irrompe in mezzo alla vita a dirci forse che la realtà è sogno caotico e folle e il sogno pericolosa metafora del reale.
Ora il quadro ti restituisce lo sguardo, visitatore perduto che calpesti l’illusione del mondo.

            
                                              






martedì 21 agosto 2012

MONDO DI PLASTICA _ mostra personale 2012





link per vedere il video sulla mostra MONDO DI PLASTICA

S I M O N E   L O I
M O N D O   D I   P L A S T I C A
A cura di Laura Rabottini


Dorgali 24_08_2012 - 05_09_2012

Il potere di indagare il sociale ritrova la sua più efficace espressione nel fertile linguaggio dell’arte di Simone Loi. Le sue ricerche si muovono all’interno di orizzonti quotidiani, dove volti, luoghi e storie descrivono la realtà di una esistenza fragile, intima e violata dall’inconsistenza dei valori contemporanei. Abbandonando i troppo facili intenti autoreferenziali dell’arte contemporanea, Simone Loi avvicina la propria ricerca estetica al mondo di oggi e ai dolori e alle brutture che produce, per dar vita ad un metaforico specchio sociale in cui i rapporti umani sono un miraggio e il potere è strumento di devastazione. La Primavera di Quirra, Metacity e Autoritratti compongono dunque gli strati e le fasi di un universo costruito non sulla fantasia e l’immaginazione, ma sulla concretezza di quello che stiamo diventando. Loi produce una fotografia del reale che, attraverso gli strumenti del bello e del genio creativo, riesce a penetrare la nostra comprensione meglio di quanto facciano gli odierni bombardamenti mediatici quando tentano di raccontarci le nostre esistenze.
La serie di disegni Autoritratti  non consiste, come suggerirebbe il nome, in una variegata declinazione di ritratti dell’artista, ma è un progetto in cui la vita stessa si rivela e parla delle sue più vere e tangibili ferite. Le storie esposte costituiscono ciascuna un frammento malato della nostra società: un pinocchio politico che si disfa delle menzogne del potere, donne come bambole fragili,  soldati addestrati all’ipocrisia della guerra che genera pace, un bambino in cerca di protezione e sicurezza come metafora della nostra più nascosta vulnerabilità.    
In bilico fra artificio e nostalgie naturali, la ricerca di Loi prosegue nelle atmosfere belliche della “Primavera di Quirra”, dove soldati e macchine si mescolano e confondono fra i riflessi delle proprie  forme senza vita. Un paesaggio post-bellico, popolato di residui di giochi ancora una volta metafora di una esistenza effimera vissuta in bilico fra artificio e realtà, si compone pezzo dopo pezzo in una dimensione priva di spazio e tempo. Il mondo pastorale, quello sardo, è candidamente vittima di una devastazione portata da lontano, ma non si arrende e resiste all’usurpazione delle proprie terre. Infine le immagini bucoliche si mescolano in questo Gioco della guerra  in un microcosmo dove tutto è finzione tranne la morte, perché a Quirra ogni battaglia è artificio, falso e inutile addestramento alla vita, dove all’uomo non è concesso di scegliere altrimenti.
L’universo del giocattolo ricompare nella serie fotografica “Metacity”, dove l’isolamento contemporaneo è protagonista di una archeologia tecnologica, specchio di una consolidata modalità di vita. Pezzi di antiquariato informatico popolano una giungla dove il primitivo alberga fra le rovine di un mondo che è metafora di tutti noi. Loi costruisce così una città simbolo delle conseguenze del progresso umano, insinuando il sospetto che i nostri sforzi di evoluzione si siano risolti in pura regressione, laddove i luoghi e i modi di contatto fra gli esseri umani non sono più fisici, ma virtuali e la libera espressione tecnica dell’intelligenza umana ha condotto ad una inconsapevole e tuttavia consensuale dipendenza dalla macchina.
È il giocattolo, dunque, il fil rouge di tanta riflessione sulla società contemporanea; il giocattolo, che simula i dettagli del mondo adulto per renderli accessibili ai bambini, diviene qui prezioso strumento di indagine: ha il potere di ridicolizzare la società reale, di metterne a fuoco le contraddizioni e, proprio in virtù della sua veste giullaresca, ha il privilegio di condurre chi osserva le sue metafore verso nuovi orizzonti di comprensione e critica delle tante verità sociali che ci opprimono.    




domenica 17 giugno 2012

M E T A C I T Y _2012






M E T A C I T Y _ V I D E O 2012




In una piazza tre ragazze passeggiavano e tutte e tre scrivevano sul cellulare senza parlarsi ma tenendosi per mano… come dire stiamo vicine ma siamo distanti le une dalle altre.
Nella sua semplicità quell’immagine mi ha particolarmente colpito. Allora ho pensato a come le relazioni tra le persone stiano cambiando profondamente: nei luoghi pubblici, nelle piazze, negli autobus, anche tra amici ci si ritrova ad essere vicini ma distanti, ognuno preso da cosa succede online senza rendersi conto di essere offline per chi si ha affianco. Questo isolamento determina un non-spazio intorno all’individuo, o meglio un’architettura invisibile che divide e separa le persone. L’intimità di questo spazio sta divenendo sempre più importante, assumendo delle connotazioni quasi sacre ed inviolabili, in quanto determina una sorta di seconda “casa” che ci consente di disconnetterci dal mondo circostante. Probabilmente questa sorta d’isolamento è fisiologico ed irreversibile, e l’aumento del numero di cellulari ed apparecchi multimediali per individuo, soprattutto in Italia, ne è un esempio anche in questo momento di crisi economica mondiale. L'uso del cellulare è in aumento perché l’avanzamento tecnologico e gli imperativi della comunicazione rendono le persone dipendenti da questi oggetti, ne consegue una sorta di tirannia dell’Oggetto e della Macchina e allo stesso tempo una sostanziale inconsapevolezza di quanto sta accadendo.
Il video METACITY parla dell’isolamento del navigatore connesso alla rete, dove i pezzi del computer diventano zattere o piccole piazze alla deriva. L’architettura della nostra vita sta cambiando e bisogna inevitabilmente seguirne il flusso.
Senza alcuna pretesa di monito educativo, ma con la semplice intenzione di fermare lo sguardo sulla cultura contemporanea, da questi presupposti scaturisce la necessità di costruire una visione metaforica della nuova realtà.
Nasce così un viaggio verso un Altrove fatto di vestigia di tecnologia obsoleta. Pezzi di modernariato presi da vecchi pc dismessi divengono piazze e grattaceli, e campi verdi di natura sintetica. Città fluttuanti lievitano sospese su un mare di Luce Neon che si fa Demiurgo ubique  e incarna forse l’idea prossima di una nuova spiritualità oltre i confini della tecnologia. O l’infinito nulla a cui nessuna tecnologia può sottrarci.
In questo non-luogo dialogano primati, simbolo del potenziale evolutivo umano e allo stesso tempo visione sarcastica di un certo modo comune di lasciarsi rincoglionire dai vari network.
In METACITY c’è solitudine e alienazione, ma anche infinite possibilità di creare collettivamente e partecipare di un TUTTO che non deve prescindere dal nostro quotidiano


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In a plaza, three girls were walking alongside each other. This perfectly merry scene of social interaction, however, was strangely divided in its function. You see, it struck me that each were engaged in conversation, but instead of amongst each other, the conversations were confined between three different people who were not there. This strange scene was enabled by the now so ubiquitous technical device, none other than the mobile-phone.
This scene, in its strange divided simplicity particularly struck me as I became more attentive to the thought of how relations between people seem to have fundamentally changed in a relatively short period of time. In squares, public transportation, even when with friends, the opportunity of 24/7 ‘connectedness’ provided by such technological advancements seems to have lodged its way into our lives and the social fabric in a way which is rapidly becoming the norm. It is no longer, it seems, considered rude, or even sad, if one takes their leave in a social situation merely to engage in another one through social-sharing websites or ‘texting’ with people not present. On the contrary, this activity seems to be earning the status of acceptability. On the one hand, in some ways, it severs the immediate social experience, yet on the other, it provides a replacement in the opportunity to transgress, as it were, the spatial limitations set upon social-connections in the way of negating distances between people.  At the same time as such spatial limitations are seemingly nullified, however, it might yet be more the case that the negation of distance is just transferred from another place to another, for it is whilst engaged with modern communications technologies that the individual is effectively subject to a non-space which occurs in their being cut off from their present situation.
This state of affairs is seemingly irreversible and seems almost pathological to the extent of becoming physiological and the increasing proliferation of mobile-phones and multimedia equipment, especially in Italy, even in the climate of current economical trouble, serves only to further accentuate this phenomenon.
The more this technology takes over and the conventions as to its use are morphed into everyday life, the more people become dependent of such technologies regarding even the social realm. A sort of Tyranny of the object takes over under the pretence of ‘better communication’.
It is this in mind that the video Metacity was conceived. This video tries to capture some of this paradoxical isolation involved in ‘better communication’. In it, pieces of computer components have become small rafts adrift amidst the changing architecture of our western lives, floating on a flow of inevitability. Without any pretence to preach, the idea of this video is to enable us to distance ourselves and reflect upon this contemporary situation.
In this way we seek to initiate a journey elsewhere, an alternative place, through what are the ever-changing remains of the ever-advancing technology, the components of which in their short life-cycle before becoming obsolete are fashioned the objects of floatation keeping our heads above the surface while at the same time taking us ever deeper into the running rapids of their advancement. Fluctuating cities of such obsolete components flourish under the basking rays of the demiurge of neon-lights where all spirituality is the advancement of the object. In this strange place where space is negotiated in terms of negation and addition the human evolutionary potential in the form of primates navigate these blocks of space, reflecting their own capacity to interact by surfing on top of rafts of defunct technology while ever curious of their own reflection. Here in Metacity, there is loneliness and alienation, but also infinity of possibilities to create collectively and participate by interchanging spatial relations, navigating space-blocks. Operator, I would like to place a call to... As such, the video aims to question assumptions that may otherwise be too close for us to recognize.





















giovedì 24 novembre 2011

ASKAN_FORZA PARIS _2011




VETROVUOTO_evento 2011

temporary events decoration school

30.11.2010  _ accademiabelleartiurbino

 

 

 

Cari Amici, quando Franko B ha proposto il tema del VUOTO come progetto artistico mi ha messo in crisi. Per prima cosa ho cercato di visualizzare unimmagine che potesse contenere lidea del vuoto e allo stesso tempo del suo contrario. Mi è venuto in mente un bicchiere che ho fotografato un po di tempo fa. La particolarità di questa fotografia stava nel fatto che non fotografavo la realtà, ma il suo riflesso. Nella pratica si tratta di un still life riflesso sul tavolo: con un gesto semplice ho ribaltato limmagine e ho lasciato al riflesso il posto che nella quotidianità spetta alloggetto reale. Il bicchiere ritratto apparentemente sembra pieno di vino ma guardando la sua ombra sul tavolo si nota che non c’è nessun liquido. Quello che noi vediamo come pieno non è altro che ciò che resta della presenza del vino, è quel che rimane attaccato al corpo del bicchiere, è il segno di un passaggio, quello che immagino possa essere la pienezza del vuoto. Avevo unimmagine mentale e ora non restava che cercare un corpo. Ho pensato al vetro e al suo ruolo nella nostra società. Il vetro è una materia potente può essere distrutta e riplasmata, puòrinascere a nuova vita. Il vetro è solitamente un isolante, serve a contenere, a dividere ciò che sta fuori da ciò che sta dentro. È il materiale fragile per eccellenza. Pensiamo ai bicchieri e alla loro triste storia in Occidente: un bicchiere di vetro viene creato, viene usato e ha senso di esistere solo se è integro e può contenere qualcosa (il bicchiere pieno); se dovesse rompersi nessuno ne avrebbe cura, nessuno avrebbe la pazienza di ricomporre la sua fragilità e verrebbe gettato via. Ora proviamo ad immaginare questo oggetto e con un colpo secco frantumiamolo. Con questo gesto intenzionale abbiamo decostruito il senso e il ruolo delloggetto e ne abbiamo invertito il compito di contenere-isolare.  Ricomponendo i pezzi del puzzle, il bicchiere incollato diventerebbe un altro oggetto finalmente libero di poter lasciare fluire il vuoto. Come dice un detto Zen  Il vero vuoto di cui parlo è ciò che è libero da ogni ruolo e da ogni compito. Partendo dal corpo del vetro mi piacerebbe realizzare un lavoro che possa unire le persone tra loro. Vorrei coinvolgervi affinché ognuno di voi porti un oggetto di VETRO o lIDEA DEL VETRO, questo oggetto vi deve appartenere e deve poter essere la metafora di voi stessi. Non abbiate paura e lasciate fluire le vostre idee Insieme, nella data del 30 Novembre ad Urbino, inizieremo un dialogo, una riflessione, un punto di contatto e forse di frattura. Vi ringrazio e spero di vedervi numerosi, un abbraccio.


Riflessioni sull’Evento VETROVUOTO




L’Evento del Vetro-Vuoto  credo sia andato ben oltre le mie aspettative in quanto il progetto ha assunto nel suo divenire delle tinte del tutto inedite. Si è svincolato dalla messa in scena di una performance dei singoli partecipanti ed ha abbracciato e coinvolto il pubblico in una esperienza scomoda ed intensa, assumendo delle connotazioni quasi teatrali.

Il prezzo da pagare in un evento del genere, dove entrano in collisione emozioni intime condivise in pubblico e silenzi imbarazzanti, è  stato che  “qualcosa è andato Oltre, oltre il sopportabile, qualcosa è scappato di mano, qualcosa ha perso il controllo” e questo non porre limite all’azione potrebbe essere visto come un fallimento. Io credo invece che la perdita di controllo nel divenire del progetto ha dato  la vita al progetto stesso, in quanto la presenza del Vuoto è stata per certi versi brutale. L’Assenza e il silenzio ha creato un vuoto-pieno che ha scalfito i nervi di più di un presente in un turbinio di emozioni, in una esperienza collettiva di vuoto scomodo e asfissiante, intenso, violento, pesante, immobilizzante, ma riflessivo. L’assenza di un freno da parte mia ne ha decretato il fallimento e contemporaneamente ne ha sancito la riuscita. Ho sempre diretto i miei eventi  fino ad un certo punto e ho lasciato il compito ai partecipanti di virare, interpretare, o sovvertire la linea tracciata da me affinché fossero loro il centro dell’evento. Affinché l’esperienza fosse qualcosa di collettiva, dinamica, in una continua predisposizione all’inaspettato. E così è stato grazie al coinvolgimento totale dei partecipanti al lavoro (che ringrazio di cuore), alla loro disponibilità nell’esporre i loro sentimenti, e soprattutto grazie all’amore viscerale verso il lavoro che hanno donato al progetto.

C’è stato donato sentimento.

Poi è arrivata l’Assenza, il Vuoto sulla sedia, e la scena è stata presa dal muto discorso di ognuno di noi seduto a terra. Il silenzio senza fine, che chiedeva di dire o fare qualcosa, in una attesa in cui nessuno di noi ha potuto dissociarsi dalla esperienza che stava vivendo.

A proposito di questa esperienza, leggendo Susan Sontag in “Sotto il segno di Saturno”, mi ha interessato la riflessione su Antonin Artaud. Sul Teatro della Crudeltà la Sontag dice: la “crudeltà” dell’opera d’arte non solo ha una funzione morale diretta, ne ha anche una conoscitiva. Secondo il criterio morale di conoscenza di Artaud, un’immagine è vera in quanto è violenta.Come a dire una esperienza estrema, pungente, violenta riesce ad abbattere il carattere contemplativo e innocuo dell’opera d’arte, scrolla il torpore annoiato del pubblico e permette all’opera stessa di poter colpire attraverso una esperienza conoscitiva.